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(Riassunto delle puntate precedenti: un viaggio, un premio, un treno, una città da scoprire, uffa che barba questi disegni! Ma poi arriva un eroe cosmico e il mondo diventa più interessante).

Tutto quell’esercizio settimanale era poi integrato con abbondanza di occasioni quotidiane, perché la cara maestra ci chiedeva di realizzare dei disegni pure per illustrare i nostri temi svolti in classe, una volta che avessimo terminato di scriverli e in attesa che finissero tutti gli atri, per non stare lì con le mani in mano.

Quando iniziammo a studiare la geografia, fu la volta delle cartine delle regioni e degli stati, corredate da monumenti, prodotti e altri elementi tipici della zona.
In quel caso, dal momento che le cartine dovevano risultare precise, ci veniva permesso di ricopiarle in trasparenza appoggiando i fogli alle finestre. Ecco qui alcuni esempi della mia personale produzione cartografica di quegli anni.


Col passare del tempo e del livello delle classi, la maestra passò ad assegnarci dei soggetti più ambiziosi, tipo riprodurre dei dipinti veri e propri. Fu così che iniziai a fare conoscenza, pure se inconsapevolmente, con i pittori impressionisti; un rapporto che si sarebbe via via consolidato e che non finirà mai di arricchirmi.

Ormai ci avevo preso gusto a tal punto che mi cimentavo nel riprodurre qualunque cosa mi intrigasse: scene di battaglie medievali tratte da un’enciclopedia per ragazzi, oppure le stesse illustrazioni dei libri di testo, tipo questa partenza di alcuni volontari di un paesino imprecisato durante le guerre risorgimentali. Mi piacevano le situazioni affollate, più personaggi comparivano più mi divertivo.

Ci fu poi la volta in cui la maestra ci assegnò una natura morta, un cesto con frutti autunnali che voleva essere anche un esercizio di composizione pittorica, e al primo tentativo giudicò insoddisfacenti i risultati di tutti, me compreso.
Ci riassegnò lo stesso identico compito (pardòn, esercizio) il sabato successivo, e al secondo tentativo feci centro. Il risultato è questo qui. Quinta elementare, primo quadrimestre. Avevo dieci anni. Il periodo credo fosse vicino al momento in cui ci partecipai al concorso da cui sono partito a raccontare.

Dunque, alla fine del ballo, quella maestra testarda e vecchia scuola mi stimolò a scoprire cose cui gli alunni delle altre classi e di altri insegnanti forse non si avvicinarono mai, o lo fecero più tardi. E per tale motivo le sono grato, gliene sono sempre stato, al netto della sua severità draconiana. Ma è un fatto inoppugnabile che, se non fosse giunto Goldrake o se, pur giungendo, io e lui per qualche motivo non ci fossimo incontrati, tutto ciò non sarebbe forse mai successo.

Al tempo del cesto di frutta – e del concorso in questione – c’era già poi stato anche un altro incontro, felice e nutritivo: con una persona in carne e ossa, stavolta, una graziosa principessa, alta slanciata e intelligente come pochi.
Si unì alla nostra classe all’inizio di quarta, dopo che la sua famiglia si era trasferita, da una città vicina, proprio a due passi dalla scuola. Io ero di gran lunga l’alunno più dotato e lei, che era dotata quanto me e mi andava parecchio a genio, mi stimolò a fare ancora meglio.
Fin dai primi anni, la maestra aveva trovato una leva efficace per motivarmi, pungolando la mia vanità. Di conseguenza, io studiavo sia per evitare i suoi sguardi di riprovazione a labbra strette e le parole di biasimo che sarebbero seguite, sia per meritarne le lodi e fare bella figura di fronte alla classe.
Con l’arrivo della giovane principessa ebbi una motivazione in più: confrontarmi e misurarmi con lei, con una mente e un talento pari ai miei, pur se con una sensibilità particolare, una soavità tutta sua, che non di rado trovavo sorprendente.
Un vero peccato che, finita la quinta elementare, le nostre strade si siano separate per sempre. Un peccato imperdonabile.

I miglioramenti che mi vennero da quell’incontro fecondo, peraltro, non furono solo dovuti al confronto quotidiano con lei, sul piano dell’impegno e dei risultati. Vi fu un mattino in cui la graziosa principessa, che per qualche tempo fu anche mia compagna di banco (fino a che venimmo separati perché pare che chiacchierassimo troppo, chissà come mai), vedendomi colorare un disegno nelle mie abituali tinte unite, non di rado a pennarello, mi mostrò un suo segreto: chiese in prestito una delle mie matite colorate e iniziò a riempire una figura, forse un muretto o un tratto di staccionata, calcando la punta lungo un margine e alleggerendo via via la pressione sul foglio, mano a mano che si spostava a riempire il resto del dettaglio. “Vedi?”, mi disse, “Così è meglio”. E mi sorrise.
Io avrei annuito in ogni caso, di fronte a lei che mi sorrideva con quel suo sguardo vivace e luminoso; ma, osservando ciò che mi aveva appena mostrato, compresi al volo che nella circostanza avesse, a tutti gli effetti, ragione da vendere.
La mia graziosa principessa di non ancora dieci anni mi aveva appena insegnato a sfumare il colore, donando alla mia vena artistica il tocco che mancava. E che, come puoi vedere, compare in tutte le “opere” (diciamo così) qui riprodotte.


Ed eccoci, dunque, tutti insieme.
Io sono nell’ultima fila in alto, in piedi su una sedia, secondo da destra; di fianco a me, una mia compagna altissima che solo un fotografo poco avvezzo del mestiere avrebbe potuto disporre su un piedistallo. Sotto di lei, decisamente più giovane in foto di come apparisse dal vivo ai miei occhi di bambino, la famosa maestra. Alla sua sinistra, oltre la bella addormentata, la mia principessa, come si evince dallo sguardo franco e sereno, la bocca principescamente appena socchiusa e il colletto di sobria eleganza.

Uno dei più bei rapporti umani della mia vita, a dispetto dei nostri appena undici anni. Forse nel ricordo tendo a idealizzarla, poesse, ma una cosa è certa: trovarmi in qualche luogo – un’aula, una sala qualsiasi, perfino una chiesa – inconsapevole che ci fosse anche lei e d’un tratto scorgerla, o udire la sua voce, era qualcosa che mi faceva emozionare come solo le storie davvero belle, e le belle persone che le abitano, sanno fare.

(segue)