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(Riassunto delle puntate precedenti: un lungo viaggio nella memoria, dalla culla a quest’oggi).

Sotto quel cielo grigio e gravido di umidità, anche la mia città natale, al primo sguardo consapevole che le rivolsi, mi parve grigia. E grande. Troppo grande.
La prospettiva a quattro corsie di via del Corso mi fece un effetto straniante.
La vastità di piazza Galimberti mi sembrò infinita, da vedere così come da attraversare.

Proprio sotto i portici di via del Corso, peraltro, ci fu un momento che mia madre si sarebbe ricordata per sempre, citandolo più volte durante gli anni a venire.
A un certo punto, continuando a camminare, mi voltai verso di lei e le chiesi: “Mamma, perché sei triste? Non ridi più, non canti più.”
Una domanda che, con ogni probabilità, mi rigiravo in mente già da un qualche minuto, o forse da qualche ora.

Lei fece una faccia un po’ sorpresa, un’ombra fugace e quasi divertita le attraversò il viso come a dire “ma senti un po’ che domande gli vengono in mente”; ma non disse nulla, si limitò ad abbassare lo sguardo per un momento. Io non insistetti. Andammo avanti, verso dove dovevamo andare.
Partecipammo all’evento, la XXIV Giornata del francobollo, e il mio premio fu, pensa un po’, un album di francobolli. Eccolo qui.

Non sono certo che il giorno fosse proprio quello indicato sulla copertina, ma non ho motivo di pensare il contrario. Del resto, è perfettamente plausibile che il concorso fosse stato indetto con largo anticipo, pressoché un anno prima, per avere il tempo di ricevere i disegni, selezionarli, decidere i vincitori e realizzare i relativi francobolli. Che sono questi qua.


Qui si vedono meglio e si possono anche ingrandire uno per uno; nel mio album ho una copia di ciascuno, ma sono talmente piccoli che se li fotografassi non si potrebbero apprezzare i dettagli.
Tra i francobolli donatimi ce n’é anche uno che mi assicura come il giorno della premiazione non potesse che svolgersi dopo l’estate del 1982, cioè quando avevo già salutato la quinta elementare, la maestra, i miei compagni e la mia principessa. Eccolo.

Le mani di Dino Zoff che alzano al cielo la coppa del mondo vinta dagli Azzurri l’undici luglio del 1982, oltre alle diciture tutto attorno, collocano l’evento della premiazione nel giusto ordine temporale: l’autunno seguente, per l’appunto.

Non ricordo nulla dei momenti che seguirono la premiazione, il tragitto verso la stazione, il ritorno a casa ecc. Ricordo però molto bene che il senso di straniamento che avevo provato quel mattino, per le vie e le piazze così grandi di Cuneo, mi era rimasto addosso anche una volta tornato a casa.
Guardavo un programma in TV e mi pareva privo di significato. Andavo nella mia stanza a giocare e non riuscivo a immedesimarmi in ciò che stavo facendo.
Era come se una parte di quel mondo più vasto si fosse insinuata dentro di me, e che i miei consueti confini, anziché l’abituale senso di familiarità (e, dunque, di conforto) che sapevamo trasmettermi, fossero d’un tratto divenuti incerti, e io con loro.
In quel momento non potevo saperlo né rendermene conto, ma quel senso di disorientamento, quella sottile inquietudine, era una cosa buona. Davvero buona. Per la prima volta non mi sentivo più al sicuro al di qua della barriera. Che allora nemmeno sapevo esistesse, ma già c’era.
Si era formata la prima crepa in quel muro invisibile. La prima delle molte altre che vi avrei scalpellato, a volte con rabbiosa urgenza, altre volte con infinita pazienza, molti anni dopo.

E mia madre? La sua infelicità tanto palese da spingermi a rivolgerle quella domanda che non ebbe risposta?
Beh, forse lei quel giorno aveva litigato con il vecchio testone – sai che novità -, che all’epoca dei fatti non era per nulla vecchio ma era già un irriducibile testone, qual era sempre stato.
Oppure, era preoccupata per la salute sempre cagionevole della sua, di madre, la cara vecchia nonna. Chissà.

Ma chi voglio prendere in giro, mio vecchio amico. Simili motivazioni erano entrambe plausibili, può darsi pure che fossero entrambe corrette, ma la verità di fondo la conosco anche troppo bene.

Era ancora giovane, mia madre, e bella. Una persona semplice, a volte troppo, ma fondamentalmente buona e generosa. Forse aveva sognato una vita migliore, e dopo quel giorno avrebbe riso di nuovo molte volte, cantato ancora di tanto in tanto mentre faceva i mestieri di casa (sempre la solita strofa o ritornello di questa o quella canzone, come già sappiamo); ma credo fosse giunta in quel periodo della propria vita che prima o poi attraversiamo tutti, quello cioè in cui ci rendiamo conto che i sogni che avevamo in gioventù appartengono ormai al passato, e se il passato a volte sembra terra straniera, il futuro può esserlo ancora di più. Un futuro di sogni avvizziti e di dura realtà.

L’avrebbe meritata, mia madre, una vita migliore. Lo avremmo meritato entrambi. E non mi riferisco solo ai suoi ultimi anni, a quelli della malattia che la colpì e finì per consumarla quando era già anziana, sì, ma non così tanto.
Tutto ebbe inizio molto prima. I sorrisi che diventarono via via meno frequenti, fino a lasciare posto alla tristezza e al rimpianto. Diciamo che fu a causa della barriera e non aggiungiamo troppo altro. Io sono riuscito a superarla, a volte di slancio, a volte strisciando, aggrappandomi con le unghie, un centimetro alla volta, e anche oggi il futuro che vorrei me lo conquisto ogni giorno, un passo e poi un altro passo e poi un altro ancora; quando va bene, agile e sciolto, sennò come mi viene, con la pienezza che riesco a cogliere in ogni attimo, a seconda delle energie e dell’umore. Lei non ebbe modo di fare lo stesso e, forse, non ne avrebbe avuto la forza o gli strumenti.

Però, la prima volta che oltrepassammo la barriera – anche se solo per mezza giornata – e mi ritrovai in un mondo più grande di quello che avevo conosciuto fin lì, a guardare un orizzonte più vasto, fu lei a portarmici.  

Quest’oggi, nella stessa città di quella domenica mattina, nel giorno in cui ricorre il suo ultimo respiro; nei luoghi in cui io trassi il mio primo, per sua precisa volontà; mentre ripensavo a tutto ciò che ti ho raccontato, mi sono concesso un ottimo e lauto pasto accompagnato da un’eccellente mezza bottiglia di Barolo. Ogni due bicchieri, uno era per lei. Per mia madre.
Per cui non posso più fare nulla, ma ho quanto meno il modo di coltivarne la memoria e restituirle qualche merito.

E questo è più o meno tutto ciò che avevo da dire in proposito.
Ora, fra poco, torniamo a noi. Torniamo a Roma.

Tuo Bill


CREDITS, NOMI E RIFERIMENTI:

Foto by Dario Angelo © 2024

A sort of homecoming è il titolo di una canzone degli U2.

Cuneo, l’alfa e l’omega di questo racconto.

Dino Zoff, portiere e capitano della Nazionale campione del mondo nel 1982.

Il passato è una terra straniera è il titolo di un romanzo di Gianrico Carofiglio.

La Barriera, un po’ come quella de Il Trono di Spade, ma più infida.

Mondiali di calcio 1982, culminati nel terzo trionfo azzurro.