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Il sopraggiungere della chiamata al servizio militare diede alla Barriera un bello scossone, e per un anno i miei orizzonti divennero più vasti, anche grazie ai nuovi amici che conobbi mentre ero sotto le armi e che provenivano non solo da altre città e province ma anche da altre regioni.

Come Paolo e Stefano, ad esempio, di alcuni anni più grandi di me perché già laureati;

da entrambi ho imparato molto ed era come se avessi avuto un paio di fratelli maggiori a cui fare costante riferimento. Paolo, oltretutto, ebbe il merito di farmi scoprire gli U2. Non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi accostato alla voce e ai versi del Vate.

Per molti di loro, quasi tutti, si trattò di un anno sprecato; per me, invece, quella fu la migliore stagione della mia giovinezza, perché finalmente (e come sorprendersi, in fin dei conti) mi sentivo libero.
Però l’anno così particolare e formativo a un certo punto finì e dovetti rientrare nei consueti ranghi.
La Barriera, pur restando invisibile, si fece sempre più palpabile e opprimente.

Tentai di sfuggirle a più riprese, anzi, si può forse affermare che non abbia cercato di fare altro, nella vita, che trovare il modo di superare la Barriera e lasciarmela alle spalle per sempre. Ma finivo ogni volta per ritrovarmi confinato dietro di essa.

Conobbi Roma, che fin dal primo istante fu casa, e fu (come puoi ben immaginare) semplice e straordinario allo stesso tempo. Niente barriere di sorta, sotto il suo cielo, nemmeno l’ombra: nient’altro che calore e sentimento, colori e sconfinata bellezza.
Ma non è che potessi andarci tutti i momenti.

Poi, col passare degli anni, si manifestarono le prime crepe; non nella Barriera, giammai, ma dentro di me. L’emergere dirompente e sempre più assiduo delle mie fragilità finì per aprirmi le porte dell’Abisso. Dapprima solo per brevi soste, poi per settimane, mesi, intere stagioni della vita. Conobbi così i miei demoni, i miei darklings. All’inizio ne fui angosciato, poi col tempo facemmo quasi amicizia. Se non puoi batterli alleati a loro: è così che si dice, giusto?
Dopotutto, diciamolo, dovrei smettere di parlarne come di entità astratte, come se fossero qualcosa di esterno, di estraneo; l’oscurità, l’Abisso, fa parte di me. Quando si manifesta, quando dal blu si passa al nero, come scrive il Re citando non so più quale canzone di quale celebre cantante, la Barriera si fa più forte e potente, fino ad avanzare ben oltre la recinzione del mio giardino; penetra attraverso i muri, arriva a lambire il mio spazio vitale più intimo, soffocandolo. Non c’è niente per te là fuori – sembrerebbe sussurrarmi, in quei momenti, il fantasma di re Elrond – solo morte.
Al tempo stesso quella che c’è dentro, dentro di me intendo, mentre me ne sto lì a scavare sul fondo dell’Abisso, non si può chiamare davvero vita. A voler essere generosi, non è che una sterile sopravvivenza.

E il mio vecchio? Lui, al di qua della Barriera ci sta benissimo. Come ho già detto, ama starsene per conto suo e non sopporta particolarmente le visite, meno che mai quelle improvvisate. Nonostante, poi, quando ne riceva qualcuna, attacchi al malcapitato (o malcapitata) un bottone interminabile e non lo lasci più andare. Segno che, forse, il suo mostrarsi schivo è più un atteggiamento che altro, perché in effetti fuori di casa è un tipo decisamente socievole. Vai a sapere.
Ora che ci penso, che io ricordi non è mai andato oltre di essa, la Barriera, per un motivo che non fosse –  diciamo così – istituzionale, che si trattasse di lavoro, commissioni, visite mediche o parentali, senza dimenticare messe e funerali. Non è mai uscito di casa per andarsi a divertire, se non le volte che io gliel’ho chiesto, di andare ad esempio al cinema, o che ce l’ho portato, tipo allo stadio. É cosa notoria, peraltro, che la mia e la sua idea di divertimento, del modo di godersi la vita, siano il più delle volte talmente distanti da risultare inconciliabili.

In mezzo stava mia madre che, fino a che ha potuto farlo, prendeva il Ciao o la bicicletta e si allontanava per qualche ora, unendo l’utile di sbrigare qualche commissione al dilettevole di far visita a questa o quella amica, specialmente dopo che la cara vecchia nonna, sua madre, aveva lasciato questa valle di lacrime.
Però, ecco, a dispetto di quante volte mi ripetesse che in fondo in casa si stava così bene – ma comprendo che il suo era, più che altro, un costante lavoro di convincimento perché ci restassi io, a casa, così che lei fosse tranquilla e non avesse motivo di preoccuparsi (e io non mi facessi venire strane idee di unirmi a qualche gang giovanile) – credo che lei, in fondo, di restarsene buona al di qua della Barriera un po’ ne soffrisse. Era sempre contenta quando qualche vicina le suonava il campanello, per qualunque motivo o magari per venire a chiederle un piccolo lavoro di sartoria, arte acquisita grazie al suo impiego di un tempo presso un’azienda di confezioni tessili. Spesso, anzi, era lei per prima a offrirsi. Così aveva la scusa per fare o ricevere visite, e chiacchierare un po’ con qualcuno.

Strana famiglia, la nostra, a ben vedere. Strana e a suo modo disfunzionale; come, in fondo, tutte le piccole comunità di quattro gatti che si stringano, gli uni agli altri, dietro un qualche tipo di barriera, tanto invisibile quanto tenace e persistente.

La cui essenza, di tale barriera, sta proprio nell’indurti a pensare – per periodi ricorrenti o per tutta la vita, penetrandoti nelle ossa e nel cervello – che oltre essa non ci sia proprio nulla che meriti il disturbo.

E ora, mio caro Dave, possiamo tornare a dove ci eravamo lasciati.
Al racconto dei cinque anni e pochi mesi durante cui, al di qua della mia, della nostra Barriera, si è consumata la mia guardia.

A presto,

tuo Bill


CREDITS, NOMI E RIFERIMENTI:

L’immagine qui sopra è una tavola tratta da The Darkness della Top Cow ed è probabilmente stata disegnata da Marc Silvestri. Ritrae Jackie Estacado, possessore della Tenebra, di fronte a una manifestazione di essa.

Ciao, celebre e diffuso ciclomotore Piaggio, che se fosse un libro si definirebbe long seller. Per un motorino non ne ho idea, ma ci siamo capiti.

Darklings, piccole e deformi creature dell’oscurità buone per tutte le situazioni narrative: nel nostro caso, l’universo di Darkness (v. sopra).

“Fuori dal blu e dentro il nero” è un verso della canzone Hey Hey, My My (Into the Black) di Neil Young, che Stephen King (“il Re”, of course) ha citato nel proprio romanzo It; non en passant, peraltro, ma come epigrafe.

“Non c’è niente per te là fuori, solo morte” è una citazione adattata da una frase che Elrond (Hugo Weaving), re degli Elfi, rivolge a sua figlia Arwen (Liv Tyler), nel vano tentativo di convincerla a non restare nella terra degli uomini per amore di Aragorn (Viggo Mortensen), rinunciando così alla propria immortalità.
Il tutto avviene nel film Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del Re (2003) di Peter Jackson.

Roma, alma mater.

U2, gruppo pop-rock irlandese semisconosciuto (see, hai voja!), il cui frontman, casomai vi fosse rimasto il dubbio, è colui che chiamo Vate.