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Al termine del mio ultimo post su NoveFioriGialli ci eravamo lasciati con una storia in sospeso. Ovvero, come sognando di diventare un tastierista rock sia finito a suonare in chiesa. Ed eccoci qua.
Un solo post non basterà per raccontarla tutta, ma buona parte sì.

Andò così. Un giorno mia madre mi portò a messa in una chiesetta di frazione – in cui non eravamo mai stati prima, nonostante fosse piuttosto vicina a casa nostra – e al termine della funzione avvicinò l’anziano sacerdote, per chiedergli se, qualche volta, sarei potuto andare a suonare l’organo che si trovava in quel luogo. Durante la messa mi ero rimirato lo strumento, un organo a canne quasi identico a quello nella foto qui sopra, che occupava un’ampia nicchia lungo la navata laterale.

Il sacerdote fu lieto di concedere il proprio benestare, ma vedendo che io continuavo a guardare l’organo a canne, già pregustandone la potenza espressiva, intervenne a smorzare i miei entusiasmi. “Ah no, quello non funziona” mi disse, “i meccanismi sono vecchi e malandati, dentro ci fanno il nido i topi. Noi per suonare abbiamo questo”. E mi mostrò un vecchio armonium, simile a quello qui sotto, solo messo un po’ meglio.

Se il confronto fotografico fra i due tipi di strumenti è impietoso, quello musicale lo è ancora di più. Un armonium emette un suono lagnoso e tremulo, affatto entusiasmante, e non suona per mezzo di canne, ma tramite piccole ance attraverso cui viene soffiata aria da due mantici a pedali. Ciò significa che per suonarlo occorre pedalare. E tenere un ritmo opportuno e costante. Pedalare con vigore consente di pompare più aria e aumentare il volume, vivacizzandolo, ma correndo anche il rischio che le ance si mettano a fischiare. Pedalare troppo piano, o a un ritmo non abbastanza coordinato, fa sì che il suono patisca dei “mancamenti” come se provenisse da una radio con le pile scariche.

Potete immaginare quale fosse la mia delusione. Dalla pianola elettronica e i sogni di una rock band, ero passato all’illusione di un attimo per un vero organo a canne (che sarebbe stato perfetto per l’ottima musica classica oggetto dei miei studi), solo per finire spiaggiato sull’organetto a pedali. Eppure in quel frangente, dopo che mia madre era andata apposta dal prete a chiedergli il permesso in vece mia, non potevo certo far trasparire il mio smarrimento. L’anziano sacerdote mi diede un libro di canti e inni sacri con testi e partiture, e il sabato pomeriggio, quando la chiesa era aperta, presi ad andare a misurarmi con quello strumento, cercando di impostare alcuni pezzi.
Mi divertivo? Mica tanto. Potevo dirlo a mia madre, e smettere di pedalare? Avrei potuto, ma non lo feci. Lei ci teneva, e io non volevo deluderla.

Con l’approssimarsi degli esami di terza media sospesi le mie visite in chiesa del sabato pomeriggio, e quando tornai, a distanza di alcune settimane dall’ultima volta, ero un po’ arrugginito. Stavo quasi per andar via, quando il prete si avvicinò e mi riprese con una certa severità, sia per le settimane d’assenza che per la scarsa qualità delle mie esecuzioni di quel giorno. Dandomi il permesso di venire a suonare l’armonium, egli aveva in mente che io, prima o poi, fossi in grado di accompagnare i canti della messa. Così in quell’occasione ruppe i miei indugi e mi diede un incarico e un obiettivo preciso: una lista di sette brani da imparare per la festa patronale, di lì a tre settimane. Ormai mi aveva nel sacco (è il caso di dirlo) mani e piedi. Mi misi d’impegno e la prima domenica di agosto del 1985 feci il mio esordio pubblico, un’ansia che non vi dico.

Con l’esercizio e il passare del tempo, una domenica dopo l’altra, tutto divenne più semplice, anche se mi rimaneva latente una certa qual’ansia da prestazione. Come se ogni domenica mattina fossi atteso da un’interrogazione, o da un compito in classe, da tenersi di fronte a un’assemblea d’istituto.
E per i miei standard, ovvero per le aspettative che suscitavo e da cui ero avvolto fin da piccolo, interiorizzate al punto da farle mie, dovevo essere sempre all’altezza della situazione, o anche di più. Fare una bella figura era il minimo. Rinunce o fallimenti erano eventualità non contemplate, inaccettabili, anche (anzi, oramai soprattutto) da parte mia. Ogni errore, un’insopportabile vampata di rossore che mi sarei sognato di notte, letteralmente, per anni.

Ansie latenti a parte, fu così che divenni l’organista ufficiale della Cappella di San Lorenzo, il martire fatto alla griglia. Con soddisfazione del prete, dei miei genitori e dell’assemblea dei fedeli.
E la mia? Beh, devo ammettere che il mio nuovo, piccolo ruolo pubblico mi inorgogliva, nonostante quell’armonium non fosse ‘sta gran cosa.
Mi piaceva sentirmi dire quanto fossi bravo. E’ sempre stata la mia debolezza.
Fu grazie ad essa che la mia maestra delle elementari, un’insegnante vecchia scuola di mezza età tutta d’un pezzo, di quelle che sembrano forgiate nel metallo e non essere mai state giovani, aveva preso quel piccolo ribelle che ero e mi aveva trasformato nello studente modello che sarei stato da lì in poi: facendo leva sulla mia vanità, e soffiando sul mio desiderio di primeggiare e fare bella figura. Nonché, cosa che avrei compreso solo molti anni più tardi, di compiacere le figure di riferimento, familiari e non, che facessero parte del contesto a me più prossimo.

Sia come sia, suonare era comunque parte di me, e nonostante – come detto – fossi vincolato a uno strumento non esaltante, mi ci applicavo con impegno. Bravino lo ero sul serio, era sufficiente che mi canticchiassero un’aria perché ne riproducessi la melodia sulla tastiera, con la mano destra; e avevo orecchio nel trovare gli accordi giusti, per armonizzare un adeguato accompagnamento, con la sinistra. Una dote che mi tornava utile non solo per ricavare la partitura (ove necessario, se non l’avevo) di un brano ascoltato altrove, che così poteva venire introdotto nel repertorio domenicale; ma anche per semplificare certi virtuosismi inutili, fini a se stessi, che mi capitava di trovare su alcuni testi stampati. Rendendoli più orecchiabili per i cantori e per l’uditorio – e anche meno complicati da eseguire, per me, con sollievo delle mie preoccupazioni suddette – senza rinunciare alla pienezza sonora d’insieme.

Le cose rimasero più o meno le stesse per circa due anni. Dopodiché, ci fu un cambiamento importante; ma di questo vi parlerò un’altra volta 😉

Stay tuned!