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Brandon Lee, The Crow © Julian Vlad 1996. Matita e china, riprodotto da un'elaborazione grafica di autore sconosciuto

Brandon Lee, The Crow © Julian Vlad 1996. Matita e china, riprodotto da un’elaborazione grafica di autore sconosciuto

Questo è un periodo di cambiamenti. O, per meglio dire, di evoluzioni.

Alcune cose, come le cattive abitudini, tendono a restare le stesse.
Ma a volte (evviva!) si scopre che è possibile cambiarle.
Una delle mie cattive abitudini è sempre stata quella di lasciarmi trasportare dall’entusiasmo, e annunciare novità che poi, quale ne sia stato il motivo, non sono riuscito a concretizzare. Stavolta no. Perché il cambiamento è già in atto, e ciò che avevo in mente di fare lo sto realizzando proprio ora.

Ho scelto di illustrare questo post con il disegno qui sopra, perché mi ricorda, appunto, un momento come quello attuale. Il preciso giorno di 19 anni fa in cui, a partire da uno spiacevole imprevisto, gli eventi si misero in moto, sprofondandomi in una crisi che investì ogni aspetto della mia vita.
Nel giro di qualche mese, il permanere di tale stato di crisi, sempre più acuto, mi portò a fare delle scelte radicali. Dalle quali ottenni svariati benefici, e nuove opportunità di crescita umana e professionale. Di fatto, da un periodo di stallo e auto-consunzione passai a una fase di evoluzione.

Anche Brandon Lee ebbe uno spiacevole imprevisto, mentre vestiva i panni del Corvo. Del genere di quelli fatali. A soli 28 anni, un assurdo incidente sul set lo legò in modo indissolubile al personaggio, consegnando lo spirito di entrambi all’immortalità. E perpetuando la tragica tradizione di famiglia iniziata con il padre, il grande Bruce Lee, che se n’era andato appena trentaduenne, in modo altrettanto incidentale e non meno assurdo, anche se più banale. “Muore giovane chi è caro agli dei”, scriveva Menandro, commediografo dell’antica Grecia. Una “consolazione” che ho ascoltato pronunciare dal pulpito anche in diversi funerali cattolici…
Sapete che vi dico? ‘Fanculo gli dei.

La storia di dolore, e di morti assurde e premature, è qualcosa di insito non solo nella figura dark di Eric Draven e del giovane Brandon che, è il caso di dirlo, gli diede anima e corpo, ma abbraccia l’autore del personaggio medesimo, il fumettista James O’Barr. Che prima si arruolò nei marines per lasciare dietro di sè, senza riuscirvi, il dolore per la scomparsa della propria fidanzata, uccisa da un pirata della strada ubriaco. E anni dopo riversò questo dolore nelle pagine de Il Corvo, alla cui creazione diede l’impulso finale la storia di due fidanzati uccisi per un anello da 20 dollari. Il  fumetto di O’Barr è un’opera di brutale violenza, e per questo catartica. Il film che ne è stato tratto, anno di grazia 1994 per la regia di Alex Proyas, è solo un po’ meno violento, ma altrettanto catartico.

Non saprei dire a cosa sia stato e sia tuttora più legato, se il personaggio, la sua storia, o la figura di Brandon Lee. Fatto sta che, non appena su una rivista vidi il ritratto raffigurato qui sopra, lo volli subito riprodurre.
Completai il disegno il giorno prima del mio venticinquesimo compleanno.
Il giorno del mio compleanno, il mio capo di allora, mentre stava di fronte a me al telefono con un cliente, come regalo a sorpresa ebbe l’alzata d’ingegno di dare al sottoscritto la colpa di un suo errore, dalle conseguenze piuttosto gravi specie a livello di immagine. Dopodiché, in privato, né prima né dopo quella scena edificante, mi attribuì mai la benché minima responsabilità. E considerato che quell’uomo, a torto o a ragione, non si era mai fatto scrupoli nello sbraitare in faccia a chiunque il proprio iracondo disappunto (e, Gian, casomai mi stessi leggendo, non è di te che sto parlando 🙂 ), non credo di sbagliami nel pensare che in quella circostanza abbia avuto la coda di paglia. E già che il danno era fatto, abbia optato come se niente fosse per scaricarne la colpa pubblica su di me.

Quello fu lo spiacevole imprevisto di cui sopra, che incrinò del tutto un rapporto di fiducia già assai precario. Non la prima volta in cui mi sentii accusare dal mio capo di aver commesso un errore più o meno grave.
Non la prima volta in cui lui aveva torto marcio. E nemmeno la prima volta in cui chinai il capo senza replicare, troppo incredulo di fronte a tanta protervia.
Ma almeno a questo proposito, cioè per quanto riguarda l’accettazione passiva di qualunque torto mi venisse da un superiore, fu l’ultima. Come tutti i datori di lavoro, e i responsabili che avrei avuto da lì in poi, sanno bene.
Ci misi un po’ a elaborare la cosa, e il travaglio mi costò qualche mese di ansie, timori e amarezze. Ma ne venni fuori con una boccata d’aria fresca, accettando l’idea del fallimento di quella giovanile esperienza lavorativa e licenziandomi da quel luogo opprimente, anche se lì per lì non avevo un altro posto dove andare. Mi disposi in serena attesa di una nuova opportunità, e non dovetti attendere molto. Da lì in avanti avrei continuato per altri 15 anni a risolvere le conseguenze di errori altrui (e anche dei miei, qualche volta; sono bravo, non infallibile), perché era un compito che faceva parte del mio lavoro, e vista la mia abilità nell’affrontarlo con successo, in tale competenza ero molto richiesto. Ma non avrei mai più subito dei torti palesi, o gli scaricabarile altrui, in silenzio e a testa bassa; quanto piuttosto replicando con voce chiara e forte, e guardando i miei interlocutori dritto negli occhi. Anche se non sempre in modo composto, devo ammetterlo. Nessuno è perfetto.
Tranne il Capitano 🙂

Quella frattura dei miei 25 anni, quindi, pur drammatica per il contesto psicologico, emotivo e lavorativo in cui si verificò, nello specifico mi diede l’impulso per maturare un nuovo atteggiamento nei confronti della mia professione, una nuova consapevolezza delle mie capacità.
Più in generale, come già ricordato, mi aprì la strada verso un rinnovato percorso di crescita personale, a tutto tondo.
Fu un processo catartico, da cui scaturì un periodo di evoluzione.
Come quello in corso. O almeno, voglio sperare che lo sia.

E così, dunque, siam tornati all’oggi.
Altre crisi di varia profondità, e di natura più squisitamente intima, si sono succedute (di una squisitezza del tutto metaforica, si intende). Ho superato l’ultima appena ieri l’altro. E poiché, come diceva Albert Einstein, una crisi costituisce una grande opportunità di cambiare e realizzare qualcosa di nuovo, eccomi qui.
Qualche piccolo cambiamento l’avrete forse già notato, nelle scorse settimane. Il rinnovamento del tema grafico. L’indirizzo stesso del blog, semplificato in julianvlad.me (o punto com, o punto it, come preferite; tutte le strade portano a Roma 😉 ). Il motto nell’intestazione, semplificato anch’esso, dai primi due versi dell’Orlando Furioso a una semplice frase di tre parole ripresa nel titolo di questo post: sotto un unico cielo. Un’espressione che costituisce la chiosa politico-filosofica di Hero, un film che apprezzo molto sotto svariati aspetti: attori, schema narrativo, costumi, fotografia (°). Da sempre, coltivo l’intima ambizione di portare alla luce le diverse sfaccettature del mio immaginario. Tutte insieme in solo luogo. Sotto un unico cielo, appunto.

Aprire questo blog, tre anni e mezzo fa, ha rappresentato un inizio in tale direzione. Ora alcuni filoni sono cresciuti, altri stanno per acquisire nuova linfa, e sono pronti a staccarsi dalla nave madre per disporsi a ventaglio, in una piccola flotta di imbarcazioni, ciascuna con i propri colori.
Una flottiglia di agili prahos malesi, a tracciare le rotte da e verso questa mia personale Mompracem. Quali, e quanti di essi, è cosa che avrete modo di conoscere presto.
Stay tuned!

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(°) E mi importa zero, per ciò che mi riguarda, che questa affermazione, “sotto un unico cielo”, venga accusata di essere un slogan neanche tanto subliminale con cui gli sceneggiatori abbiano voluto appoggiare l’assolutismo del governo cinese. La bellezza del film, e del suo significato nel contesto storico in cui si svolge, non ne viene compromessa.