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25/12/2012  © maurimarino

Una camminata con il proprio cane nella tranquillità di una campagna immersa nella nebbia. Anche oggi, giorno di Natale, c’è chi sente la necessità di ritagliarsi un momento tutto per sé, alternandolo alla convivialità di pranzi e cene natalizi.
25/12/2012 © maurimarino

 

26/12/2007

Vi sono storie che se le si ascolta con il cuore aperto feriscono troppo profondamente.

Neil Gaiman, American Gods

20/07/2008

La guarigione è una forma di rivolta e, come mi pare di aver spiegato, tutte le rivolte riuscite cominciano in segreto.

Stephen King, Duma Key

L’inverno è arrivato, e con esso il cielo grigio e le piogge.
La giusta cornice per il mio umore di questi giorni.
Lo ammetto senza reticenze, a costo di passare per un bastian contrario brontolone: io detesto le festività natalizie. Ecco, l’ho detto.

Detesto che, puntuale come le disgrazie, arrivi quel momento dell’anno in cui, quale che sia il tuo stato d’animo e le traversie che si stanno affrontando (e che magari riecheggiano nelle tribolazioni di persone a te vicine), ti viene detto che devi sentirti lieto per forza, buono con tutti, in pace con il mondo.
E perché mai, di grazia? Perché è Natale.
Perché si celebra la nascita di Gesù.
Ma per favore.

La vita reale se ne frega del nostro bisogno di credere in qualcosa di soprannaturale, e delle nostre ricorrenze pseudo-religiose.
La vita accade, e basta. E spesso è fonte di preoccupazioni e di tristezza, e non di rado ferisce, di quel  genere di ferite che impiegano un sacco di tempo a rimarginarsi, per poi lasciarsi dietro grosse cicatrici.

Ciò che accade a me, di solito, è che a questo punto dell’anno sopraggiungano, inopportune, colorate celebrazioni di letizia eterodiretta; a ricordarmi prima di tutto le cose che non ho.
Che ho perduto, e sono molte. O che non ho mai avuto, che sono ancora di più. E sono quelle che fanno più male.

A ricordarmi che, anche se amo leggere e raccontare storie, ce ne sono di quelle che feriscono troppo profondamente. Perché sono vere, e almeno due o tre di esse le ho vissute sulla mia pelle.

A farmi sentire stanco e sfiduciato, perché mi sembra di combattere, di stare in rivolta, da una vita; ma nonostante la conquista di posizioni non secondarie, la “guarigione” che dir si voglia appare obiettivo ancora lontano, incerto, affatto scontato.
Concordo su questo punto con il buon vecchio zio Steve: le rivolte riuscite cominciano in silenzio, l’ho sperimentato io stesso. Si vede che ogni tanto faccio troppo rumore. Già, dev’essere per quello.

Non fraintendetemi: sarei stato lieto di poter festeggiare il Natale in pace ed armonia, un po’ come quando ero bambino.
Sono agnostico, d’accordo, ma anch’io subisco il richiamo dell’immaginario collettivo; e, soprattutto, le tradizioni radicate nell’infanzia conservano un fascino confortante.
E’ per questo che, nei giorni scorsi, ho augurato Buon Natale a tutti, amici e conoscenti. E i miei auguri erano sinceri, pur sapendo che auguravo loro una leggerezza di spirito che a me non sarebbe stata concessa.

Da giorni ho smarrito l’ottimismo, e la determinazione, che mi hanno sorretto nei mesi scorsi, e che hanno finito per consumarsi sotto il peso degli eventi. Mi sveglio al mattino con il morale sotto i tacchi, intontito e rallentato come un pugile che ne ha prese troppe.
Del resto, non scrivevo da parecchie settimane; per me scrivere è un po’ come respirare, dunque si può dire che per tutto questo tempo sia rimasto in apnea.

Ovvia conseguenza, credo, del dover fare i conti con cose ben al di là della mia capacità di controllo; tali da farmi ritenere che lassù qualcuno, ammesso che qualcuno ci sia, abbia un senso dell’umorismo davvero perverso, per contenuti e tempistiche.
Un esempio? Mah, tipo, la prima cosa che mi viene in mente, ritrovarsi un genitore ridotto ad una versione crudelmente reale del Barone Ashura, personaggio già di per sé piuttosto infelice.
E, per quanto grave, non è nemmeno il peggio che sia capitato, quest’anno, proprio a ridosso delle festività.

Ecco dunque, con la rinnovata avversione per le medesime, che la pur comprensibile stanchezza sfuma nella frustrazione; l’insicurezza si insinua serpeggiando; la seduzione della resa mi sussurra parole dolci all’orecchio, a ricordarmi la mia paura più grande. Che non è la prospettiva di dovermi arrendere, casomai, all’evidenza, se e quando dovesse rendersi inevitabile. Quanto piuttosto di smarrire la tenacia, e la convinzione, nel perseguire ciò in cui credo.

(continua)

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(Foto di Maurizio Marino, per gentile concessione)