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2013-06-24 18.28.55

Un paio di pensieri mi sono tornati in mente spesso, durante il tempo trascorso giù nel profondo, dove è nero (v. la prima parte di questo post).
Due esortazioni, se vogliamo, a cui ritornavo come sorta di auto-incoraggiamento.

La prima l’ho ascoltata su Radio Deejay, un mattino, mentre rientravo in auto da una trasferta di lavoro. Linus stava intervistando un ospite, di cui non ho afferrato il nome, che parlava di sport estremi e kit di sopravvivenza.
Per essere precisi, più che parlare questo signore sussurrava: labbra incollate al microfono e trasporto epico, quasi sognante, come chi non solo sia convinto fin nel midollo di ciò che ha da dire, ma si compiaccia pure parecchio di poterlo raccontare ad un folto uditorio.
Non che ci sia nulla di male in questo, per carità. Però, ecco, più che un’intervista pareva l’appassionata omelia di un predicatore. Di cui mi è rimasta impressa l’esortazione finale:

Se state attraversando l’inferno, andate avanti.

In quel momento non sapevo ancora, me ingenuo, che non sarebbe trascorso molto tempo prima che mi ritrovassi catapultato nel mio piccolo inferno personale. Di nuovo. (Perchè era già successo, e non dubito che prima o poi capiterà ancora).
E quando poi mi ci sono ritrovato, dopo un po’ che me ne stavo lì steso senza più sapere da che parte fosse il nord, ho ricordato il commiato radiofonico del tipo che sussurrava al microfono, e ho scoperto la semplice verità insita in quelle parole.
Il mio modo per lasciarmi l’inferno alle spalle è stato rimettermi in piedi, e camminare senza più fermarmi, se non per qualche breve sosta di giusto riposo. Andare avanti, cioè, nel vero senso della parola: non solo metaforico, ma proprio fisico, di strada percorsa e suole consumate…

Il secondo ricordo è antecedente al primo, e mi è particolarmente caro perchè riguarda uno dei personaggi di fantasia a cui sono più affezionato, il buon vecchio Logan meglio noto come Wolverine.
Ormai qualche anno fa, avevo letto una breve storia introspettiva in cui il nostro eroe se ne stava per una decina di pagine steso sulla neve a sanguinare, con profonde ferite a seguito dello scontro con un nemico robotico non meglio precisato. E mentre era costretto a rimanere lì immobile, cercava di aggrapparsi a ricordi che gli consentissero di superare il dolore delle ferite, lasciando trascorrere il tempo necessario a rimettersi in sesto. Fino a che, nell’ultima pagina, riusciva a rialzarsi in piedi e si allontanava di spalle, diretto verso foreste innevate e alte pareti rocciose, facendosi sempre più piccolo all’orizzonte.
Dietro di sè, nella neve, lasciava una fila di impronte di stivali, abbondanti chiazze del proprio sangue e i pezzi metallici del nemico distrutto. Insieme a queste parole:

Fantasmi del dolore.
Li avrò per mesi.

Ma starò bene finchè ricorderò la prima regola.
Non cercare di sopravvivere fino a che non è finita, ma fino all’istante successivo.

E quando arriva quell’istante…
…impara a conviverci.

Per chi fosse interessato, la storia in questione si intitola “Guarire” (un titolo che nel post di oggi cade giusto a fagiolo), testi di Stuart Moore e disegni di C.P.Smith, ed è contenuta in Woverine n.202 del novembre 2006, Marvel Italia.

D’accordo, io non dispongo di un fattore di guarigione accelerata, nè di uno scheletro di metallo indistruttibile, per non parlare di artigli e altre peculiarità del nostro amico mutante. Peraltro, non sono neanche canadese 😉
Ma, per il resto, trovo che questa breve storia calzi a pennello con ciò di cui vi ho scritto oggi sul mio recente passato, così come la chiosa finale è semplicemente perfetta.

Un giorno, spero, troverò anche la determinazione di raccontare con maggiore chiarezza, tralasciando le metafore odierne, i dettagli più intimi di questo mio recente viaggetto. Prima di tutto per me stesso, dal momento che in fin dei conti – a parte un’occasionale intento di purificazione catartica – quando uno scrive o parla pubblicamente di sè, lo fa perchè avverte la necessità di esprimere il proprio vissuto interiore. Cosa che in un’ultima analisi è anche un modo di affermare la propria identità.
Ma poi (non secondariamente) perchè è possibile che qualcuno, leggendo il resoconto della mia storia, possa trarne un qualche giovamento. Fosse anche una sola persona, ne varrebbe senz’altro la pena.

Quel giorno però non sarà oggi.
Per oggi ho già scritto abbastanza, ed è ora di staccare le mani dalla tastiera, alzarsi dalla sedia, uscire all’aria aperta e camminare un’ora  – magari anche due – godendomi il fresco di questa bella sera d’estate.

Hasta luego!

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(L’immagine che compare nell’articolo è tratta da questo album personale sul mio profilo Google+)